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Ricordi di Torricella
Memories of Torricella
SCALDARSI |
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Era una sera di fine ottobre ed era notte da un pezzo. Fuori
l’aria era umida e fredda e sembrava stringere in una morsa di gelo la nostra "massarì"(casa
di campagna con terreni coltivabili annessi). All’interno si sentiva
scricchiolare la legna che bruciava nel focolare. Il calore che si sprigionava,
a fatica, riscaldava un po’ l’ambiente, faceva bollire la pentola dei fagioli e
a tratti mandava guizzi di una luce calda e tremula verso i nonni che stavano
confabulando di cose che mi sembrarono misteriose e importanti. Alla fine, come
accadeva raramente, furono d’accordo: anche io avrei dovuto partecipare. Dopo cena, il nonno mi disse: domani ci dobbiamo alzare molto presto. La mattina seguente, prima che i galli cantassero e ancor prima che il denso nero della notte si fosse minimamente rischiarato, il nonno, come al solito, mi scosse un braccio per svegliarmi e mi disse: "ema i"(dobbiamo andare). Mi ero a lungo rigirato nel freddo letto prima di addormentarmi ed al risveglio ebbi l’impressione di essermi addormentato da poco. Nello staccarmi dal letto finalmente caldo, mi parve di separarmi da una parte del mio proprio corpo. Mi vestii. Andai vicino al focolare dove una fiamma vivace cercava di riscaldare e illuminare l’ambiente e dove la nonna stava facendo il formaggio e stava anche scaldando per me il latte della capra appena munto. | ||
La nonna al focolare della casa di Torricella |
"la cuanc" la conca |
"la cunq e lu maner" |
Quando la nonna mi vide, interruppe le sue
attività, si avvicinò alla mensola, sulla quale troneggiava la conca dell’acqua,
mi fece segno di avvicinarmi. Per consentirmi di lavarmi il viso e quindi di
svegliarmi completamente, la nonna attinse con “lu maner”(grosso mestolo di rame)
l’acqua fredda della conca e la fece cadere in una tinozza che era sul pavimento
vicino alla conca; allungai le mani e raccolsi l’acqua fredda che cadeva e mi
lavai gli occhi e la faccia. Mi asciugai ed ero pronto per fare colazione con il
latte caldo della capra nel quale immersi pezzi di pane di una delle grandi
“felle” (fette) delle “panelle” (pagnotte) che la nonna amorevolmente ogni
quindici giorni “faceva” nel forno accanto al focolare. La genuinità degli
alimenti e della fame, resero quella colazione quanto mai squisita. Seguivo il passo sicuro del nonno senza sapere
come egli riuscisse ad orientarsi in quella fitta oscurità. | ||
Poco dopo udimmo il vociare di altri tre uomini che si avvicinarono e che salutarono mio nonno con la deferenza e la considerazione con le quali, tutti gli individui di quella civiltà scomparsa, si rivolgevano alle persone più anziane di loro. Poi chiesero sempre al nonno, con modestia e cortesia, quale
era la scelta per questo anno. |
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"Lu cecine" |
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"Lu cecine": I quattro beccucci sui quali si poteva appoggiare la bocca per bere e l'imboccatura per riempirlo senca imbuto | |
Ciascuno di loro non si disfece però del tabacco, delle “cartine”(con cui confezionavano le sigarette) e dei relativi “ppicciariell”(fiammiferi di legno). Chi non l’aveva indossate fino da casa, indossò “L chioche” (particolari calzari fatti con la pelle di capra che si indossavano con calzini molto pesanti fatti di lana di pecora filata a mano, coprivano poco più della pianta del piede ed erano assicurati alla gamba da lunghe stringhe fatte anch’esse con pelle di capra). Il ragazzo che nella foto a pag,2 indossa la coppola indossa anche “le chioche”. Poco dopo, i cinque uomini incominciarono a fare un qualche cosa che assomigliava ad un rito già ripetuto innumerevoli volte. Agivano con tranquillità e senza incertezze ognuno svolgeva il proprio compito con serietà e competenza senza intralciarsi e senza sciupare inutilmente le loro risorse. Dopo avere valutato una serie di circostanze, tre di loro si recarono ai piedi della quercia prescelta e cominciarono a scavare la terra alla ricerca delle radici da tagliare; ciò avveniva quasi esclusivamente nel lato ovest dell’albero. Il lavoro era reso duro dalla terra argillosa che bagnata si incollava sugli attrezzi ma non sulle “chioche” degli uomini: tali calzature erano l’ideale per muoversi in quel terreno bagnato e fangoso. Altra difficoltà era data dalle pietre frammiste alla terra che impedivano agli attrezzi di penetrare in profondità. Subito dopo, subentrarono anche gli altri due uomini dando il turno ai tre, in maniera di far avanzare il lavoro ma anche di consentire agli uomini di potere recuperare energie e quindi potere durare a lungo malgrado la fatica richiesta. Pigramente si stava facendo giorno ed al lato ovest della quercia predestinata andava formandosi una buca sempre più profonda. Alle dieci circa (nessuno aveva un orologio; ci si regolava con la luce e con l’esperienza), fu fatta la prima sosta per fare colazione. Tutti si sedettero alla meglio ed incominciarono a mangiare pane, formaggio e qualche “cacchie d saicicce” (qualche salsiccia) il tutto accompagnato da acqua e vino; come il lavoro era proceduto senza indugi e senza ansia così ora stava avvenendo la colazione che fu conclusa da una fumata: chi con la pipa di terracotta e chi accendendo una sigaretta, ovviamente dopo un esercizio non facile di confezionarsela con le proprie mani dure e callose. Tutto il tempo fino allora trascorso, io ero rimasto pressoché inoperoso perché non giudicato in grado di fare quel tipo di lavoro; ciò fu motivo di mia delusione. Nell’attesa osservavo attentamente ciò che avveniva; ascoltavo i discorsi che senza interruzione gli uomini facevano; mi inebriavo della natura incontaminata che vibrava tutta intorno; seguivo l’eco che si produceva dai colpi di zappa e di accetta che gli uomini infliggevano ai piedi della quercia. Ero affascinato da quegli alberi grandiosi che ci circondavano; i ramoscelli e le foglie, in particolare, mi sembravano un esempio inconfondibile di bellezza e del mistero della vita (molti anni dopo seppi che di essi era fatta la corona di Giove[2]). Nell’attesa però mi ero anche posto una serie di domande. Approfittai della sosta della colazione per cercare di avere qualche spiegazione dal nonno. Nonno perché hai scelto quella quercia? Perché questa zona, che nell’insieme è molto vasta, è in parte di mia proprietà e da sempre è stata adibita al rifornimento di legna per l’uso della nostra famiglia; ci sono circa trenta querce e ogni anno ne tagliamo una e ci preoccupiamo di far crescere una nuova pianta facendo molta attenzione che comunque le restanti possano fornire legna per i successivi 30 anni ancora. Si è sempre fatto così e la legna non è mai mancata alla nostra famiglia e sarà sempre cosi se tutti i nostri discendenti, quando sarà il loro turno, rispetteranno la regola. Perché non dovrebbero rispettare la regola? Perché c’è da sempre una tentazione: tagliare più di una quercia l’anno per poi poter vendere la legna ed incassare dei soldi che possono servire per tante cose; ma se si cade in questo inganno ci saranno in futuro persone che non si potranno riscaldare, non potranno raccogliere ghiande da dare da mangiare ai maiali; questo terreno sassoso che fa crescere così bene le querce, non è adatto all’agricoltura; se non si dà il tempo di crescere alle querce qui invece di un bel bosco, si avrà, con il tempo, un terreno arido e inutilizzabile. Nonno perché questi uomini ci aiutano? Ci sono molti lavori che a farli da soli sono molto più faticosi ed a volte impossibili. Inoltre se si lavora da soli non ci si può giovare delle abilità e delle esperienze di tutti. Comunque noi non li paghiamo, come potresti immaginare tu. Da sempre ci si aiuta a vicenda e quindi tutti lavorano per tutti ma non per essere pagati in danaro ma facendo affidamento di essere aiutati se ne avranno bisogno. Mentre si lavora non si pensa alle ore di fatica che debbono passare per concludere la giornata. Si lavora per fare qualche cosa a prescindere dalle ore e dalla fatica. Oggi, per esempio si lavora per abbattere la nostra quercia; fare prima e fare meglio è nell’interesse di tutti quelli che partecipano, quindi ciascuno dà il suo meglio con generosità. Non sono nostri dipendenti e noi non li trattiamo come tali ma con considerazione, rispetto e dignità come loro fanno con noi. Siamo tutte persone che ci aiutiamo a vicenda. Come hai potuto vedere il lavoro viene affrontato con pacatezza e serietà. Durante il lavoro si parla. Si raccontano le proprie esperienze le proprie gioie e i propri guai. Si parla con la confidenza e la fiducia con cui si parla ad un amico. Nella giornata si fanno insieme due colazioni ed un pranzo abbondante offerto dalla padrona di casa per la quale quel giorno si lavora. Niente a che vedere con il lavoro in miniera o in fabbrica che io ho svolto faticosamente in America. Qui non c’è la presenza e la prepotenza di un padrone, o chi per lui, né i vantaggi che derivano da tale situazione: in pratica guadagnare più soldi. Noi qui viviamo per vivere e non per accumulare fortune. Ricordati, aggiunse in fine, che queste persone oggi ci stanno aiutando; anche tu nel tuo piccolo quindi, se capita, dovrai fare con generosità qualcosa di cui loro potrebbero avere bisogno. Qualche mese dopo, mentre eravamo tutti tappati in casa, sommersi da una alta coltre di neve, vicino al focolare, al caldo prodotto da quella quercia, insegnai qualche rudimento di lettura e di scrittura a due di loro più giovani che non si erano potuti permettere il lusso di andare a scuola. Con la stessa calma con cui si era mangiato parlato bevuto discusso fumato, si riprese il lavoro. Gli uomini nello scavare sempre il lato ovest dei piedi della quercia incontravano le radici più grandi; a colpi di accetta le tagliavano e separavano dai sassi che incontravano e dalla terra fangosa che con le zappe spingevano lontano dall’albero. In questa fase mi venne affidato il compito di recuperare i pezzi di radice che estraevano e di ammonticchiarli lontano dalla quercia. Nel fare avanti e dietro le suole degli scarponi che indossavo, si ispessivano con gli strati di terreno argilloso, consolidati dai i fili d’erba secca che anch’essi si attaccavano. La fatica fisica imponeva di tanto in tanto di procedere alla rimozione del fango che si accumulava sotto i miei piedi; ero però soddisfatto poiché anche io ora facevo parte di quel rito che serviva ad uno scopo preciso concreto che mi era chiarissimo e che era anche da me voluto. Ormai la luce grigia del giorno grigio illuminava con avarizia le persone, le cose e gli animali di quel bosco in cui la natura sonnacchiosa regnava sovrana. Il sudore ed il vino scaldavano le membra di quegli uomini dai volti scavati[3] e bruciati dal sole che in questa giornata però era assente quasi giustificato[4]. Non terminavano mai il discorrere pacato, i modi cortesi e rispettosi con cui si trattavano tra di loro. Riservavano a me attenzioni rispettose e cortesi ma traspariva una curiosità ed una qualche diffidenza tipica nei casi in cui ci si trova a contatto con un estraneo. In risposta, io mi prodigavo per assecondarli e nel dare a loro motivo di trattarmi non come un diverso; l’operazione era difficile poiché anche se io ero nato a Torricella, ero vissuto a Roma dove avevo studiato e dove forse sarei ritornato; inoltre non parlavo bene il dialetto, non conoscevo la vita che li si faceva; non sapevo fare tutte le cose che persone della mia età lì sapevano fare benissimo. Qualcuno avvisò che da lontano si vedeva arrivare “Za Filicett”(la Signora Felicetta), mia nonna, con un grosso “staro”(specie di cesto largo e basso non di rado realizzato con tavole molto fini tenuti insieme da legacci di pelle di capra, “lu stare” in dialetto); ovviamente si portava sulla testa. Il segno era evidente, era quasi “mez iurn”(mezzogiorno) e la nonna stava portando un abbondante pranzo per tutti; si stava avvicinando a passi lenti ma continui, per arrivare da noi aveva camminato senza sosta per più di un ora e con un peso gravoso sulla testa; portava il suo carico con naturalezza e senza apparente sforzo. Si era alzata prima di noi, aveva accudito gli animali che si trovavano nella stalla (portato via il letame, messo la paglia pulita, dato da bere e da mangiare munto quelli da mungere); aveva acceso il fuoco, fatto il formaggio, preparate le nostre colazioni; dopo averci salutato aveva riassettato la casa; si era rifornita di acqua andandola a prendere al pozzo attingendola con “lu tragn” (piccolo secchio legato ad una corda) e riempiendo la Conca che appena colma si era messa in testa e portato a casa; aveva buttato l’acqua sporca che la sera precedente e la mattina si era accumulata nella tinozza presso la conca; Aveva poi incominciato a preparare il pranzo: aveva appeso alla catena del focolare “nu callar”(un caldaio) con abbondante acqua da far bollire; allo scopo si era procurato legna, fascine per accendere il fuoco e per ottenere fiamme forti ma di breve durata (per fare bollire l’acqua) e pezzi di tronchi robusti per ottenere un fuoco duraturo e che producesse brace anch’essa duratura (per fare il sugo). Aveva cercato e trovato i polli che razzolavano intorno alla “massari”; con un guizzo atavico aveva afferrato il gallo che era stato riservato per quel giorno; lo aveva portato davanti alla porta di casa dove aveva preparato un piatto ed un coltello; con le ginocchia aveva tenuto fermo il pollo; con una mano gli aveva retto la testa e con l’altra mano servendosi del coltello aveva fatto un taglio profondo sotto l’orecchio del gallo; aveva fatto scolare tutto il sangue nel piatto che aveva preparato; quando la vittima non aveva dato più segni di vita lo aveva messo in un bacile; aveva preso parte dell’acqua che bolliva sopra al fuoco e la aveva versata nel bacile che conteneva il pollo; aveva messo l’acqua bollente sul pollo per poterlo facilmente spennare; l’aveva accuratamente spennato, spellato nelle zampe, e accuratamente pulito la testa ed il collo; aveva passato sulla fiamma del camino il pollo così denudato per eliminare ogni possibile residuo di piume e peli; aveva tagliato la testa e le zampe e le aveva preparate per fare il brodo per domani; aveva squartato il pollo; come prima cosa aveva individuato la bile e facendo attenzione a non farla rompere l’aveva staccata con perizia e velocità e l’aveva gettata tra i rifiuti; aveva asportato tutti i ventrigli del pollo li aveva puliti; aveva spellato il grecile e lo aveva fatto a pezzi; li aveva messi in un piccolo tegame con l’olio fatto in casa, con le cipolle da lei coltivate con i pomodori da lei piantati coltivati, raccolti e conservati; mentre il sugo si incominciava a fare, aveva messo in un grande tegame il pollo fatto a pezzi con gli altri ingredienti fatti in casa per cuocerlo in umido; mentre le cotture procedevano, dopo avere preparato la tavola ed il setaccio aveva setacciato la farina separandola così dalla crusca; con la farina bianca ottenuta aveva fatto una ciambella sulla tavola al cui interno aveva versato il contenuto di sei uova che aveva raccolto dal pollaio di casa; aveva quindi con le proprie mani impastato il tutto; aveva a lungo amalgamato uova farina e sale; dopodiché con il matterello aveva ottenuto una sfoglia grande ed uniforme di circa un millimetro di spessore; l’aveva lasciata asciugarsi un po’ per poi tagliarla in quadrati di circa quattro centimetri di lato; il tutto mentre teneva sotto controllo il fuoco acceso, la cottura del sugo, la cottura del pollo, le visite del gatto richiamato dai buoni odori. Quando l’acqua della caldaia bolliva, ad una ad una vi aveva gettato i quadrati di pasta che aveva fatto; quando la pasta si era cotta l’aveva scolata e l’aveva condita con il sugo e sopra aveva sparso formaggio da lei fatto e grattugiato a mano; aveva poi preparato “lu stare” mettendoci una tovaglia, le forchette, un grosso “vaccile” colmo delle “sagn a pez” che aveva cucinato, il tegame con il pollo in umido, il pane, il vino l’acqua; sopra a tutto, anche per mantenere calde le vivande, aveva messo una coperta pesante di canapa da lei tessuta il cui filo da lei era stato ricavato dalla canapa che aveva piantato, coltivato, raccolto, portato a macerare, depurata dalla parte legnosa (con la “ciaula”)[5] ed infine filata con “lu fuse” (il fuso)[6] e “lu vurtecchie” (fuseruola/fusaiola)[7]. [8] |
“ciaula” – dialetto; Gramola – Italiano. |
Donne al lavoro con le gramole |
Al suo arrivo
con il grosso peso in testa non apparve affaticata, era serena, tranquilla
salutò e fu salutata da tutti con affetto e cortesia: fu aiutata a
togliersi “lu stare” dalla testa e si mise ad apparecchiare il pranzo su
di un tratto di prato sassoso e quindi privo di fango che si trovava non
molto lontano dalla quercia; mise prima la grossa coperta di canapa, al
centro di questa mise la tovaglia a centro della medesima sistemò il
grosso “vaccile”(grosso piatto da portata) delle “sagn a pez”; vicino a
questo il tegame con il pollo in umido; pose tutte intorno le fette di
pane e le forchette. Tutti e otto ci mettemmo in circolo seduti sulla grossa e spessa coperta di canapa e cominciammo a mangiare con un appetito irrobustito dal profumo che diffondevano i cibi genuini da poco arrivati ma sopra tutto dalla attività fisica che tutti avevamo svolto e dal freddo con il quale avevamo combattuto l’intera mattinata. Dai volti di quelle persone, dal loro modo di comportarsi, dalla cortesia ed il rispetto reciproco che esprimevano emergeva soddisfazione, serenità, e forse una consapevolezza inconscia di stare vivendo in simbiosi con la natura circostante e con amore verso tutte le cose e le persone del creato. Queste persone che allora erano considerate “ignoranti” da i veri ignoranti, vivevano una cultura accumulata in diecimila anni di esperienze e trasmessa da una generazione ad un altra quasi esclusivamente attraverso l’esempio; una cultura che tra gli altri pregi aveva quello di non richiedere sforzi e non creare dubbi quando si dovevano trovare le soluzioni appropriate agli innumerevoli problemi della esistenza umana. Per quanto da sempre ne sono alla ricerca, non ho ancora incontrato persone, che malgrado disponessero di fortune, ricchezze, bellezze, filosofie, culture, ideologie, religioni, scienze, ansiolitici, sonniferi, droghe, esperienze e cose di ogni genere, alle quali la vita desse loro appagamenti superiori a quelle che dava ai nostri poveri onesti contadini. Dopo il pranzo gli uomini ripresero il lavoro e la nonna rimise insieme le sue attrezzature e si avvio verso casa. Io continuai il lavoro che mi era stato assegnato non trascurando però ogni dettaglio dei discorsi che venivano fatti. Dopo circa due ore si fece una ulteriore sosta per mangiare qualcosa e fumare. Si riprese il lavoro sperando che prima di andare via si potesse abbattere quella quercia poderosa. Scavarono ancora un poco e poi il più giovane di essi salì sopra l’albero e legò le funi che avevamo portato ai rami alti; una volta ridisceso facemmo la prova di tirare le medesime corde sempre verso il lato ovest allo scopo di far cadere l’albero. Tutto fu invano perché la quercia resisté. Nonno perché non è stata tagliata con la sega? Mi rispose che se avessero fatto così, avrebbero perso tutta la legna della parte più bassa e avrebbero lasciato in quella radura tutti i resti dell’albero e tutte le radici che sarebbero state da ostacolo alla crescita di altri alberi e alle attività di cura del sottobosco; queste cure venivano fatte almeno una volta l’anno e consistevano nell'estirpare piante spontanee come rovi e simili e nel raccogliere i rami secchi che cadevano dagli alberi. . Nonno perché l’albero non è stato scavato tutto intorno ma solo nel lato ovest? Per farlo cadere nel lato ovest che come puoi vedere nella caduta non danneggerà gli altri alberi; Poi scavarlo tutto intorno non serviva a niente perché vedrai che quando l’albero cadrà, verrà fuori tutta la parte che si trova sottoterra. Un altra notte si stava avvicinando pertanto furono radunati tutti attrezzi raccolte le proprie cose e ciascuno di noi si avviò verso la propria abitazione con l’accordo quasi tacito che l’indomani si sarebbe dovuto continuare. L’indomani mattina di buona ora si continuò a scavare e poco prima della interruzione per la prima colazione la quercia si arrese. Sollecitata dal tiro delle funi, prima lentamente si mosse verso il lato ovest, poi sempre più velocemente precipitò a terra riempiendo tutta la radura di una montagna di rami e foglie. Il peso dell’albero aveva sollevato le radici del lato est e con queste il terreno e i sassi che con tanta fatica erano stati rimossi dal lato ovest. Si avvertirono odori, forme e colori nuovi in quella radura sconvolta dalla caduta dell’enorme quercia. Si interruppe il lavoro per effettuare la prima colazione e agli argomenti consueti si aggiunsero l’assegnazione dei compiti a tutti noi che da quel momento sarebbero stati tutti diversi. Alla ripresa, due uomini si occuparono di tagliare le radici del lato est avendo cura però di ricavare da queste e dalla parte del tronco immediato ad esse un pesante maglio (grosso martello a due teste che sarebbe servito per battere “l zepp” (cunei di ferro e di legno con cui i grossi tronchi sarebbero stati spaccati). Mentre eseguivo i compiti che mi erano stati assegnati facevo attenzione con grande interesse la costruzione del maglio. I due uomini, individuarono prima una radice abbastanza lunga e dritta poi la tagliarono nella parte che andava sotto la terra. Tagliarono anche l’estremità che andava verso il tronco avendo cura di asportare anche una parte del tronco dura e compatta; aiutandosi con le accette lo trasformarono in un cubo pesante; fecero diventare la parte della radice un maneggevole manico; il poderoso martello di legno era pronto. Gli altri quattro uomini erano intenti a segare i grossi rami riducendoli in segmenti lunghi circa un metro. Con l’accetta piccola io tagliavo i rami ricchi di foglie e della sezione fino a cinque sei centimetri e della lunghezza di circa un metro e mezzo: stavo preparando il materiale per fare le fascine che una volta disseccate sarebbero servite alla nonna per il fuoco domestico. Bisognava legarle strette, con appositi rami di olmo, ma a questa attività di tanto in tanto procedeva il nonno poiché io non avevo allora l’abilità e la forza per farlo. Tra le foglie, ogni tanto, trovavo palline dal diametro di quattro o cinque centimetri con le quali stavo costituendo la mia collezione segreta. Fantasticavo di fare mille giochi con tutte quelle palline che in quel periodo dell’anno erano di colore marrone. In quei momenti non mi rendevo conto che altri tipi di gioco mi aspettavano. Successivamente chiesi al nonno di che cosa si trattasse e lui mi disse “la maladi dl cerque” (la malattia delle querce) e non aggiunse altro. Molto tempo dopo seppi che quelle palline si chiamavano Galle o cecidi[9] e che si trattava di escrescenze costituite da tessuti di natura ipertrofica che si sviluppano in un organo vegetale come reazione patologica allo stimolo esercitatovi da un elemento parassita, il quale se ne serve come dimora durante il periodo di sviluppo, traendone anche alimento. I grossi rami che avevano un diametro superiore ai 20/25 centimetri, venivano spaccati dagli uomini, in due e quattro o in otto o più in relazione al diametro. Uno di loro, con una grossa accetta perfettamente affilata dava un colpo preciso e potente al centro verticale del tronco da spaccare; poi sfilata l’accetta e nello spacco che si era prodotto introduceva una “zeppa” di ferro che faceva penetrare con colpi poderosi del maglio appena fabbricato; man mano che il cuneo affondava nel legno produceva una spaccatura sempre più profonda, larga e lunga; allora venivano alla stessa maniera inseriti alti cunei fino a che il tronco non si divideva in due; l’operazione continuava finché tutti i pezzi di legna non avevano le dimensioni adatte ad alimentare correttamente il focolare domestico. |
Ad una mia richiesta, il nonno mi precisò
che per dare colpi ai cunei non si poteva battere con un martello di
ferro poiché questo avrebbe rovinato i cunei di ferro e distrutto quelli
di legno. Quando un bel mucchio di legna era pronto, ne “caricarono” l’asino e mi diedero l’incarico di condurlo alla “massarì” dove insieme alla nonna avremmo dovuto scaricare la legna: la cosa non mi garbava tanto ma mi convinsero facilmente dicendomi che al ritorno, siccome l’asino era scarico, potevo cavalcarlo. Mi diedero una serie di raccomandazioni e quindi mi fecero avviare. |
L'asino è bardato con "lu mmast" (il basto) per trasportare cose e non con la sella per trasportare persone. Il mio peso su di lui è sbilanciato e lui manifesta il suo disappunto. |
L’asino era grande: aveva la
corporatura di un cavallo. Era nero e giovane (l’età si poteva
conoscere esattamente esaminando i suoi denti). Le lunghe orecchie
dritte erano sempre tese a percepire tutto quello che accadeva intorno.
Dopo un po’ mi accorsi che non serviva guidarlo; lui conosceva la
strada meglio di me; sceglieva accuratamente dove passare per faticare
meno; poiché la strada era gran parte in discesa non sembrava faticare
molto malgrado il gravoso carico che trasportava. Sapevo che in caso di condizioni, secondo lui, non accettabili, avrebbe ragliato per protestare e nei casi più gravi si sarebbe seduto per terra rifiutandosi di camminare. Nulla di tutto ciò successe durante la nostra prima collaborazione perché gli uomini lo avevano caricato bene: un peso sopportabile, bene bilanciato ai suoi due lati, il suo corpo non veniva ferito dalle cose che trasportava. Prima di partire inoltre aveva mangiato e bevuto. Camminavo dietro di lui, ma non troppo vicino poiché di tanto in tanto emetteva poderosamente e rumorosamente gas intestinali e defecava senza preavviso e senza riguardo. Il suo passo era regolare e continuo ed io gli stavo dietro senza problemi fino all’inizio della salita non lontano dalla “massarì”. Cominciavo a faticare ed allora mi venne in mente di fare quello che tante volte avevo visto fare e cioè attaccarmi alla sua coda; a parte i rischi sopra ricordati, non ci furono problemi: l’asino tirava anche me. Quando eravamo arrivati in prossimità della fonte dei “calderali”[10], ad un tratto mi avvertì che voleva essere lasciato libero ed una volta liberato, allungò il passo e poi si fermò. Mi accorsi dopo che doveva urinare e che comunque lo doveva fare in un posto ben preciso e cioè in un punto di quella strada dove urinavano tutti gli asini che ci passavano; un posto che per noi umani emanava una puzza da morire e per loro aveva una attrattiva irrinunciabile. Dopo la sosta obbligatoria arrivammo alla “massarì”; insieme con la nonna scaricammo la legna; io raccolsi le funi con le quali era stata legata ed ero quindi pronto per il ritorno a cavallo. Poiché la nonna era pronta per portare il pranzo del secondo giorno, proposi a lei di utilizzare l’asino; mi disse che se fosse stata portata dall’asino le sarebbe venuto il mal di stomaco; mi propose di portare alcune cose pesanti delle sue e di salire io sull’asino e così facemmo. Nella strada del ritorno non ci furono cose particolari se non che vedendo io degli alveari, domandai alla nonna che cosa mangiano in inverno le api quando non ci sono fiori e magari tutto e coperto di neve. Lei mi rispose “lu melo”[11]. La risposta mi sembrò strana: pensare che le api mangiassero gli alberi di mele non poteva essere. Esitai un po’ poi lo richiesi di nuovo; la nonna, alquanto urtata mi rispose alla stessa maniera. Cercai di pensare che le api potessero mangiare le mele come quelle che conservavamo per l’inverno ma la spiegazione mi lasciava perplesso. La curiosità fu però più forte di me e dopo avere camminato ancora parecchio provai a rifare la domanda alla quale ebbi una risposta rapida e risentita in dialetto molto stretto che non riuscii a capire, ma il tono era inequivocabilmente risentito. Conclusi che, a scanso di equivoci, dovevo migliorare la mia conoscenza del dialetto. Finalmente arrivammo alla quercia abbattuta e fu consumato il pranzo. L’asino fu nuovo caricato ed io cominciai il viaggio successivo e così via per tutto quel giorno e per il giorno successivo. Durante quei tragitti, in andata a piedi ed al ritorno a cavallo ebbi l’occasione di conoscere meglio il mio collega di viaggio. Seppi che era di proprietà di uno degli uomini che stava collaborando con noi e che la mattina della caduta della quercia lo aveva portato con sé per metterlo a disposizione per il trasporto della legna. Seppi che il suo padrone si preoccupava della sua alimentazione, di farlo bere, di proteggerlo dal freddo e dal caldo eccessivo, di ricoverarlo nella sua stalla, di pulirlo, di tenere in ordine i suoi zoccoli ed i suoi finimenti; pensava anche alla sua salute e alla sua riproduzione. Scoprii che era impossibile fargli fare un tratto in ripida salita: malgrado le mie insistenze con la voce, con la “capezza”(cavezza) e con il bastone, rifiutava categoricamente. Si ostinava a voler procedere unicamente a zig zag facendo ampi tornanti; era l’unico metodo da lui ritenuto opportuno per risolvere il problema; era convinto che le difficoltà dovevano essere affrontate con gradualità; praticamente scindeva in tanti problemi facili un problema che altrimenti sarebbe stato di difficile soluzione; il suo metodo era efficace e se lasciato fare superava tranquillamente ogni tratto di salita ripida riducendo la fatica ed evitando i pericoli. Questa piccola esperienza, oggi mi fa venire in mente una applicazione del metodo di Cartesio scoperto nel 1600; dubito che l’asino lo avesse studiato per risolvere i propri problemi ma non posso escludere che l’illustre scienziato abbia visto camminare un asino in salita prima della sua scoperta. Feci anche l’esperienza di vederlo sedersi perché il carico era troppo gravoso; oggi, anche questo caso mi sembra una forma di sciopero, di protesta; ho la sicurezza che l’asino non lo facesse per motivi politici; non posso escludere però che chi ha inventato lo sciopero possa aver visto prima un asino protestare ed in maniera così efficace. Altra cosa che notai in quei viaggi è che anche gli asini pazienti per antonomasia, se si esagera, perdono la pazienza; quando la perdono incominciano a correre verso una direzione da loro scelta, tengono un lungo orecchio su ed uno giù e ragliano fortissimo; come per dire in forma molto dura “basta, non ci provate più, mi avete rotto i……..” |
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Asini da lavoro | portando la legna | venditore di verdure |
Era un lavoratore paziente ma aveva i suoi punti
di vista le sue esigenze sulle quali non veniva a compromessi con
l’uomo per il quale lavorava: insomma esigeva rispetto; anzi, in
alcuni casi, mi sembrava che mi guardasse dall’alto in basso, come
si guardano, in certi casi, le persone che ignorano un sacco di cose. Seppi che se esasperato è in grado di dare calci contemporaneamente con tutte e due le zampe posteriori che in un sol colpo possono uccidere un uomo; i suoi zoccoli ferrati la sua forza e la sua determinazione ne sono la spiegazione. Seppi inoltre che tutte le caratteristiche che io avevo scoperto sono patrimonio comune di tutti gli asini del mondo e che i nostri contadini le conoscevano benissimo. Nella mia lunga vita lavorativa, ho incontrato una infinità di “gestori di risorse umane aziendali”: molti dei quali trattavano gli uomini loro sottoposti con meno cognizioni, considerazione, rispetto e cura di quanto facessero i nostri contadini con i propri asini. Nei viaggi di ritorno, a cavallo di quel presuntuoso collaboratore, che mi faceva capire con chiarezza che non aveva bisogno di essere guidato, ero assorbito completamente da tutte le cose che mi scorrevano lentamente davanti: i numerosi irregolari appezzamenti di terreno contornati da confini di rovi e di pietre che si stendevano fino a sotto le pendici di Monte San Giuliano; le piccole case fatte di pietre bianche isolate tra i campi, il tortuoso sentiero fangoso ma abbastanza largo per far transitare un carro tirato da buoi, qualche contadino che come un punto perso tra quei campi stava sudando per far fruttificare il suo piccolo terreno che chiamava: “L ncot”[12]; qua e là qualche piccolo gruppo di alberi di olmo; a destra una serie degradanti di colli e colline che si perdevano a vista d’occhio. Qua e là a tratti si intravedeva la striscia bianca (la cosiddetta via nova) che univa le contrade e i piccoli paesini sassosi arroccati su speroni di roccia bianca; il verde di piccoli boschi e terreni faticosamente curati a mano ma tenuti come giardini; pecore e qualche vacca al pascolo; fruscio di qualche uccello che volava via; aria pura ed incontaminata. A sinistra, in lontananza, la Maiella azzurrina, alta fino al cielo, pareva che guardasse tutto, taceva e stava lì al di sopra, imperturbabile; faceva pensare che ci sono cose più grandi; con la memoria di tutto quello che aveva visto, sembrava ricordare agli uomini che le loro passioni, le loro speranze le loro illusioni il loro sudore i loro affanni non sono che cose momentanee. Tra un viaggio ed un altro, vidi gli uomini trasformare quella montagna di verde che avevano fatto cadere sulla radura in mucchi ordinati di legna da ardere che misuravano a “canne” (una canna di legna era una vecchia unità di misura ed era costituita da una catasta di legna lunga circa due metri, alta circa un metro e larga circa un metro e quindi di circa due metri cubi; per brevità anzichè indicare tutti questi dettagli si parlava solo di una canna e tutti sapevano in che consisteva). La parte bassa della quercia, dritta e poco “nodosa” era stata trasformata in tavoloni segando il tronco medesimo in verticale; il paziente lavoro era stato effettuato con la lunga sega dai due manici alle estremità. Ovviamente i tavoloni erano destinati ad usi diversi dal fuoco: costituivano la materia prima per il falegname che realizzava svariati strumenti ed attrezzature. Con un carro trainato da buoi, gli uomini avevano rifornito di legna la nostra casa di Torricella che si trovava poco più su della chiesa di San Giacomo dalla campana stonata. A conclusione di quelle giornate di lavoro avevamo rifornito di legna la nostra “Massarì” che si trovava nella contrada della “Casetta”[13] e la casa di Torricella; tra due alberi vicini avevamo ammonticchiato una enorme quantità di fascine, disponevamo di tavoloni per risolvere diversi problemi; la nostra famiglia si era procurato quello che occorreva per difendersi dal freddo. Il posto dove sorgeva la quercia abbattuta era stato pulito e ripianato ed al centro vi era stata trasferita una piccola pianta di quercia progettando di abbattere anche essa allo stesso scopo ma dopo trenta anni. Nello stesso tempo, da qualche altra parte del mondo altri “uomini evoluti ” per fare attività fisica e passeggiare tra il verde avevano tentato in mille maniere in far entrare una pallina in una buca ed ora discutevano su chi di loro era stato più bravo a farlo. Le capacità di fare questo gioco li inorgogliva al punto che credevano di essere in grado di dire come si doveva vivere a tutti e tanto più ai nostri contadini. Frascati(Roma), fine Ottobre 2005 Giosia Aspromonte P.S.
[1] “maluvent” – questa contrada e’ chiamato così per i
venti cattivi e freddi che sembrano soffiare più forte in quella
contrada, chiamato “la bora” in italian e “la voir” in dialetto. La
contrada di "maluvent" si trovava a sud est della “casetta”, al di
là della strada che va verso Bomba.
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